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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 20/08/2015 Scarica PDF

La disciplina della domanda di concordato preventivo nella "miniriforma" del 2015

Stefano Ambrosini, Professore ordinario di Diritto Commerciale nell'Università del Piemonte Orientale


Sommario: 1. Un cenno “normogenetico” e uno sguardo d’insieme alla novella. - 2. La nuova domanda di concordato preventivo. - 3. Modifiche e rinuncia alla domanda.

 

 

1. Un cenno “normogenetico” e uno sguardo d’insieme alla novella

1.1. Con l’approvazione, nel mese di agosto, della legge di conversione del d.l. n. 83 del 27 giugno 2015 (in corso di pubblicazione nel momento in cui viene licenziato il presente contributo)[1], il nostro ordinamento concorsuale registra un’ulteriore significativa modifica, introdotta – anche in questo caso come in altri del recente passato – in via di urgenza.

L’intervento non giunge inatteso. E’ quanto meno dall’epoca del “Decreto del Fare” del 2013 che vanno sviluppandosi, in varie sedi, riflessioni dirette a novellare la legge fallimentare quale consegnataci dalla riforma del 2012; riflessioni cui è stata impressa un’accelerazione sul finire del 2014 (e dunque in epoca anteriore all’istituzione, ad opera del Ministro della giustizia, della commissione di riforma), quando hanno cominciato a prendere corpo diverse iniziative in ambito bancario, confindustriale e istituzionale.

Non a caso, alcune delle innovazioni di cui all’odierna riforma (offerte concorrenti, finanziamenti interinali nel pre-concordato, finanziamenti urgenti a sostegno della continuità aziendale, ecc.) erano già contenute nella bozza del c.d. Investment Compact circolata appunto a fine 2014, peraltro non recepite nella versione finale del decreto legge n. 3 del 24 gennaio 2015 (“Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti”), complice, fra l’altro, la ritenuta impraticabilità politica dell’ipotesi, prevista in tale bozza, di derogare alla disciplina in tema di usura relativamente ai finanziamenti autorizzati ex artt. 182-quinquies e 167 e concessi da soggetti vigilati dalla Banca d’Italia.

L’odierna “miniriforma” rappresenta il punto di arrivo di questo percorso e il “precipitato” di interessi legittimamente portati avanti, di là dal giudizio sulle singole disposizioni, da settori assai importanti del sistema economico.

Alcuni possono quindi pensare, per così dire tolemaicamente, che le novità di cui trattasi siano ascrivibili all’adozione, da parte del legislatore, di determinate tesi dottrinali o giurisprudenziali (in genere le proprie…); se però si vuole, copernicamente, rimettere le cose al loro posto, deve riconoscersi – anche senza aver preso visione delle numerose bozze succedutesi negli ultimi mesi e conseguente contezza dei rispettivi “mittenti” – che le nuove norme rispondono a precise (e, si ripete, pienamente legittime) istanze, provenienti, in larga misura, dal mondo bancario e, in parte non trascurabile, da quello confindustriale.

L’ennesima novella non organica della legge fallimentare solleva anche in questo caso le note (e difficilmente confutabili) perplessità circa l’eccessiva frequenza degli interventi legislativi e il loro carattere giocoforza “asistematico”. Essa tuttavia conferma, nel contempo, la centralità del dibattito, in sede sia economica che politica, sul diritto della crisi d’impresa e, in generale, sulle regole per affrontare più efficacemente la perdurante congiuntura negativa; al punto da aver creato, in ambito fallimentare, una vera e propria “corsia preferenziale” per le controversie in cui è parte un fallimento, le quali – come recita il nuovo ultimo comma dell’art. 43 – devono essere “trattate con priorità”, con tanto di dovere per il capo dell’ufficio giudiziario di adottare disposizioni coerenti con detta finalità.

 

1.2. Una prima (e pertanto fatalmente superficiale) lettura delle principali novità in materia di domanda di concordato preventivo è offerta nei paragrafi che seguono. Volendo gettare fin da subito uno sguardo d’insieme, ciò che emerge con maggior evidenza è l’obiettivo di riequilibrare il rapporto debitore/creditori, ritenuto – a torto o a ragione – eccessivamente sbilanciato a favore del primo nell’impostazione fatta propria dalla riforma del 2012. E lo strumento “principe” individuato a tal fine dal legislatore del 2015 è quello della contendibilità dell’impresa in crisi, come si evince plasticamente dalla disciplina delle offerte e delle proposte concorrenti, le cui finalità – si legge nella Relazione illustrativa al disegno di legge presentato alla Camera dei deputati il 27 giugno 2015 – “sono quelle di massimizzare la recovery dei creditori concordatari e di mettere a disposizione dei creditori concordatari una possibilità ulteriore rispetto a quella di accettare o rifiutare in blocco la proposta del debitore”.

L’altro fil rouge che lega alcune rilevanti previsioni si rinviene nell’intento di evitare abusi nel ricorso al concordato e, comunque, effetti eccessivamente penalizzanti per i creditori; obiettivo, questo, perseguito in particolare attraverso la fissazione della soglia minima del 20% per il soddisfacimento dei crediti chirografari nel concordato liquidatorio.

Al riguardo occorre ammettere, se non si vuole mancare di onestà intellettuale, che essere stati costretti a discutere, nell’imperio della legislazione previgente, in ordine alla proponibilità o meno di un concordato con “soddisfazione” per il ceto chirografario nella misura dello 0,0003%[2] ha voluto dire che un certo segno era stato passato; sebbene alcuni di noi continuino a ritenere che la reintroduzione di una percentuale minima sia verosimilmente destinata a comportare null’altro che un incremento dei fallimenti e con esso un ulteriore carico per la – già cronicamente affaticata – giustizia civile, senza apprezzabili vantaggi per i creditori, cui viene in tal modo sottratta la possibilità di scegliere fra un concordato con soddisfacimento compreso, ad esempio, fra il 15% e il 19,9% (in sé non disprezzabile) e, appunto, un fallimento. Oltre tutto senza distinguere, come invece sarebbe stato d’uopo, fra cessione dei beni sic et simpliciter e proposta (pur sempre liquidatoria ma) contemplante apporti di soggetti terzi.

Per altro verso, va detto che né quest’ultima previsione, né quella sulla inammissibilità di proposte concorrenti ove la proposta del debitore assicuri il pagamento di almeno il 40% dei chirografi nel concordato liquidatorio o di almeno il 30% nel concordato in continuità (tema, questo delle proposte concorrenti, che chi scrive si riserva di analizzare in altra sede) appaiono misure concretamente idonee a provocare la tempestiva emersione della crisi, laddove sarebbe stato opportuno (oltre che, questo sì, urgente) individuare equilibrati strumenti di allerta in grado di impedire la dispersione del residuo valore dei beni aziendali e l’aggravamento del dissesto.

Occorre nondimeno riconoscere, chiudendo sul punto, che la novità appare coerente con un trend normativo improntato a un crescente disfavore nei confronti del concordato liquidatorio, come i lavori della Commissione di riforma (parzialmente e succintamente ostesi, proprio sul tema in parola, in sede di audizione parlamentare da un suo autorevole componente), sembrano in effetti confermare. Tendenza, questa, cui non pare estranea l’attenzione al contenimento, per quanto possibile, dei costi delle procedure concordatarie (di cui pure occorre tener conto nel teorico raffronto con il fallimento); e non a caso nella Raccomandazione della Commissione Europea del 12 marzo 2014 si fa espresso riferimento alla riduzione dei “costi di ristrutturazione a carico di debitori e creditori” (“Considerando” n. 11).

Volendo in qualche modo anticipare una conclusione di carattere generale, non sembra comunque corretto definire l’odierna novella in termini di “controriforma”. Essa infatti tiene fermi i capisaldi delle riforme del 2005 e del 2012: la centralità dell’istituto concordatario, l’accesso alla procedura rimesso in via esclusiva al debitore, la fase “con riserva” di presentazione del piano, l’attestazione del piano ad opera di professionista di designazione “privatistica”, il forte arretramento dell’eterotutela giudiziale dei creditori, il favor (oggi ancor più marcato) per la continuità aziendale, la possibilità di ottenere lo scioglimento o la sospensione dei contratti in essere, l’assenza di maggioranze per teste, la risoluzione a iniziativa dei soli creditori, la prededucibilità dei finanziamenti all’impresa in crisi, ecc.

Nessun revirement del legislatore, dunque, solo alcune significative “correzioni di rotta”.

La vera “cifra” del nuovo intervento normativo, di cui non si intende certo sminuire la portata, sta – come si accennava – nell’oscillazione del pendolo della tutela degli interessi protetti: da un assetto molto (forse, per certi aspetti, troppo) incentrato sulla tutela del debitore (non a caso corretto, cammin facendo, dalle previsioni sulla nomina del commissario nel concordato con riserva e sull’obbligo di relazioni informative periodiche) a uno maggiormente attento alle istanze di protezione del ceto creditorio nell’ottica di incrementarne le prospettive di soddisfacimento.

A ciò si aggiunge un minor favor per la soluzione concordataria in quanto tale, come testimonia, più ancora di altre previsioni, l’intervenuta abolizione del meccanismo del silenzio-assenso ai fini dell’approvazione della proposta (il cui mantenimento sarebbe peraltro risultato difficilmente compatibile, con ogni probabilità, con l’ipotesi della presentazione di proposte concorrenti).

Non va trascurata, poi, una più spiccata attenzione alla dimensione penalistica del fenomeno, che si evince non solo dagli innesti effettuati agli artt. 236 e 236-bis (collegati all’introduzione dell’art. 182-septies), ma anche dall’aggiunta dell’ultimo comma dell’art. 165, ai sensi del quale il commissario giudiziale è tenuto a comunicare “senza ritardo” al pubblico ministero i fatti che possono rilevare ai fini delle indagini preliminari, nonché dalla prevista trasmissione al pubblico ministero di copia degli atti e dei documenti depositati a norma del secondo e del terzo comma dell’art. 161. Né pare estranea, seppur indirettamente (e in linea teorica), all’ambito penale la previsione di cui al primo comma dell’art. 172 circa l’obbligo commissariale di illustrare le utilità che, in caso di fallimento, potrebbero ricavarsi dall’esperimento di azioni risarcitorie e revocatorie.

L’auspicio è che tali novità, a cominciare da quelle programmaticamente dirette all’apertura alla concorrenza nel concordato, conducano davvero alla creazione di quel “mercato” delle imprese in crisi e dei distressed debts cui i princìpi di contendibilità e di competitività dichiaratamente mirano e non invece a uno sterile – e anzi dannoso – incremento dei fallimenti e delle connesse “esternalità” negative per il sistema nel suo complesso. Da questo punto di vista tutti gli “attori” coinvolti sono chiamati a una nuova, “sfidante”, assunzione di responsabilità, a cominciare dalla serietà e dalla correttezza dei comportamenti degli operatori economici e dei loro consulenti.

   

2. La nuova domanda di concordato preventivo

La disciplina della domanda di concordato è stata integrata nelle sue due previsioni più rilevanti.

All’art. 160 è stato aggiunto un quarto comma, che così testualmente recita: “In ogni caso la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari. La disposizione di cui al presente comma non si applica al concordato con continuità aziendale di cui all’art. 186-bis”.

L’art. 161 è stato a sua volta modificato con l’inserimento, alla fine della lettera e) del secondo comma, della seguente disposizione: “in ogni caso, la proposta deve indicare l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore”.

La portata di queste innovazioni non sfugge ad alcuno, anche perché la loro inosservanza si traduce in altrettante cause di inammissibilità della domanda. Ma sul punto si tornerà fra breve, trattando dei poteri del tribunale.

 

2.1. La novità di più forte impatto è rappresentata dallo sbarramento introdotto con riguardo al concordato liquidatorio, che recepisce le istanze da tempo provenienti da una parte cospicua del mondo imprenditoriale e che tuttavia – come si è accennato nel paragrafo precedente – pare (implicitamente) fondato sull’equivoco che un fallimento sia preferibile per i creditori chirografari rispetto a un concordato inferiore al 20%: il che non trova fondamento nei dati esperienziali, sotto il profilo sia della misura del soddisfacimento (considerata soprattutto la scarsa efficacia del rimedio revocatorio a seguito della novella del 2005), sia dei tempi di incasso (d’ora in poi, peraltro, auspicabilmente “influenzati” dal disposto dell’art. 104-ter).

A prescindere da questo rilievo, la norma denota un diverso atteggiamento del legislatore a seconda che il concordato sia liquidatorio o in continuità[3], in ciò discostandosi sensibilmente dall’impostazione della riforma del 2012, caratterizzata da un favor indifferenziato per la soluzione concordataria.

Venendo all’aspetto esegetico, l’attenzione si focalizza sull’espressione “deve assicurare il pagamento”.

L’utilizzo del verbo “assicurare” depone in modo sufficientemente perspicuo nel senso che la proposta non può limitarsi a una prospettazione ai creditori di verosimile adempimento, dovendo invece contenere l’assunzione di un vero e proprio impegno. Conclusione, questa, che parrebbe estensibile – in virtù dell’addendum apportato dalla novella alla citata lett. e) del secondo comma dell’art. 161: utilità che il proponente “si obbliga ad assicurare” – anche al concordato in continuità; a meno però di aderire, relativamente alla spinosa questione della percentuale vincolante, alla diversa (e non meno argomentabile) prospettazione di cui si dirà in appresso al par. 2.2.

La percentuale indicata dal debitore nel ricorso avrà quindi, d’ora in poi, carattere vincolante, pur potendo continuare a essere indicata in un range compreso fra un minimo e un massimo, a condizione che la “forbice” sia ragionevolmente contenuta. Non basta infatti un precetto normativo a eliminare quell’alea che è per sua natura consustanziale a qualsiasi cessione di beni da realizzarsi in un certo arco temporale e come tale soggetta a variabili di diverso genere (e lo stesso dicasi, a fortiori, nel caso di prosecuzione dell’attività d’impresa); alea che sarebbe irrealistico voler forzosamente comprimere.

L’innovazione, lungi dall’avere carattere di interpretazione autentica, conferma puntualmente che la norma previgente non poteva che leggersi nel senso della non vincolatività della percentuale indicata, come predicato da lungo tempo in dottrina[4] e come condiviso dalla nota sentenza resa dalla Cassazione a Sezioni Unite nel gennaio del 2013[5]. Tanto che si è avvertita come ineludibile la necessità di un intervento ad hoc sul punto.

 

2.2. La disposizione in commento ripropone, in termini parzialmente mutati, il tema non (sol)tanto delle prerogative del tribunale[6], quanto soprattutto di quelle dei creditori.

Va da sé che, se la proposta prevede una percentuale inferiore al 20%, o se dall’esame del ricorso e della documentazione allegata emerge ictu oculi che essa non è raggiungibile (tipicamente, perché l’attivo disponibile non risulta sufficiente a coprire il fabbisogno, di là da quanto – in ipotesi erroneamente – indicato dal debitore), il tribunale è tenuto a decretare l’inammissibilità della domanda.

Al di fuori da questi casi eclatanti (per vero rari), il tribunale continua a dover condurre le verifiche che la (ormai consolidata) giurisprudenza in materia prevede, da cui esula – com’è noto – lo scrutinio in ordine alla fattibilità economica del piano, non essendovi ragione, pur alla luce della novellata disciplina (che non a caso nulla dice in merito ai poteri del tribunale), per disattendere i princìpi sanciti sul punto dalle Sezioni Unite.

Né vi è spazio, francamente, per forzature interpretative che volessero ad esempio appigliarsi, in senso contrario, all’utilizzo del verbo “assicurare”, le quali si rivelerebbero scopertamente improntate a perniciose nostalgie “retroguardiste” che si confida siano invece, ormai, definitivamente superate. Mentre ad altra conclusione si sarebbe dovuti giungere se il legislatore fosse intervenuto – come in effetti da alcuni invocato – a modificare, rafforzandoli, i poteri del tribunale, ovvero a ripristinare l’iniziativa ufficiosa (o quanto meno ad opera del commissario giudiziale) ai fini della risoluzione. Ma si deve per l’appunto prendere atto che nulla di tutto ciò è avvenuto e trarne le debite conseguenze sul piano interpretativo.

Non muta, dunque, la fisionomia dei poteri giudiziali, che risultano peraltro ampliati nella fase di esecuzione del concordato in virtù della previsione di cui all’ultimo comma dell’art. 185, in base al quale il tribunale, al fine di dare compiuta esecuzione alla proposta presentata dal terzo e omologata, può revocare l’organo amministrativo, se si tratta di società, e nominare un amministratore giudiziario (salvo attribuire i poteri propri di quest’organo al liquidatore giudiziale, ove nominato).

Altro profilo, intimamente collegato al precedente, attiene all’eventualità in cui, secondo le risultanze della relazione commissariale ex art. 172, non sia possibile conseguire la percentuale indicata (e promessa) dal debitore (poniamo del 25%, o compresa fra il 20% e il 25%), bensì altra minore percentuale (poniamo del 18% circa).

Ebbene, così come il tribunale non fa alcun atto di fede relativamente al contenuto del piano e dell’attestazione, analogamente non può prendere “per oro colato” quanto sostenuto, sebbene da una posizione di terzietà (che è cosa diversa dall’indipendenza: fatto, questo, oggettivamente non trascurabile), dal commissario giudiziale, ma è chiamato a valutare comparativamente le due prospettazioni e ad accordare la propria preferenza, in termini di maggiore attendibilità, a quella più coerente, completa e congruamente motivata.

Solo nell’ipotesi di conclamata non fattibilità del piano nella misura assicurata dal debitore può dunque farsi luogo, non diversamente da quanto accaduto fino a oggi, alla revoca dell’ammissione al concordato ex art. 173. E altrettanto dicasi, evidentemente, per quanto concerne i poteri del tribunale in sede di omologazione.

Assai più penetranti divengono, al contrario, le prerogative dei creditori.

Ed invero, lo scostamento dalla percentuale promessa dal debitore comporta la possibilità, da parte di ciascun creditore chirografario, di chiedere la risoluzione del concordato[7]. Il secondo comma dell’art. 186, peraltro, stabilisce che il concordato non si può risolvere ogniqualvolta l’inadempimento abbia scarsa importanza, sicché deve trattarsi di uno scostamento significativo rispetto alla prospettazione iniziale.

Facendo allora applicazione dei princìpi elaborati dalla giurisprudenza con riferimento all’art. 1455 c.c. (con l’avvertenza che in ambito concordatario non ci si trova al cospetto di una parte adempiente di un contratto in corso di esecuzione, bensì di un credito, essendo stato il negozio fonte della pretesa creditoria già interamente eseguito ex uno latere), deve ritenersi che l’inadempimento comporti la risoluzione non tanto, in base a una risalente pronuncia di Cassazione[8], quando il contratto non sarebbe stato concluso se l’inadempimento fosse stato previsto, bensì piuttosto in applicazione del c.d. criterio di proporzionalità, tenendo cioè conto, secondo un più recente arresto dei giudici di legittimità[9], del valore che la parte dell’obbligazione inadempiuta ha rispetto al tutto.

Esemplificando per chiarire meglio il concetto, non dovrebbe farsi luogo a risoluzione ove colui che vanta un credito di 500.000 euro e che si è visto promettere il 30% (pari a 150.000 euro) riceva poi in concreto un importo pari al 25% (cioè 125.000 euro); mentre non potrebbe essere definita di scarsa importanza – e dunque legittimerebbe l’istanza di risoluzione – una differenza intorno al 15% del dovuto, giacché la minor somma percepita sarebbe pari a circa 75.000 euro, cioè alla metà di quanto assicurato dal debitore.

Va peraltro dato conto, in proposito, di un possibile diverso scenario interpretativo, il quale, incentrandosi sul disposto dell’ultimo comma dell’art. 160 – (e valorizzando, da un lato, il fatto che l’art. 161, 2° c., lett.e), non fa menzione del carattere cogente della percentuale indicata, né per vero della stessa, dall’altro, l’elasticità del concetto di “utilità”) –, muove dall’ipotesi che solo nel concordato liquidatorio (del resto l’unico istituto a proposito del quale il legislatore ha chiaramente disposto in merito) sia configurabile una percentuale vincolante, tenuto conto, fra l’altro, che quello in continuità può prevedere anche – quando non addirittura esclusivamente – utilità e modalità satisfattive diverse dal pagamento (questo solo, a ben vedere, “percentualizzabile” in senso proprio).

In tal caso, considerando anche la circostanza che la norma sulla risoluzione non è stata toccata dalla novella, potrebbe concludersi, relativamente al concordato liquidatorio, che la misura dell’inadempimento andrebbe effettuata in base non già alla percentuale indicata nella domanda, ma al mancato conseguimento del 20%, di tal che non vi sarebbe inadempimento ove la percentuale di soddisfacimento concretamente realizzata rimanesse pur sempre al di sopra della soglia del 20% (o poco al di sotto di essa).

Ciò avrebbe fra l’altro il pregio, oltre che di garantire maggiore “tenuta” ai concordati in continuità, di scongiurare la tentazione, per il debitore, di effettuare valutazioni “iperprudenziali” dell’attivo per minimizzare il rischio dell’inadempimento. Certo, non va dimenticato, specie da parte degli imprenditori più “disinvolti”, lo spettro dell’occultamento di parte dell’attivo ex art. 173, 1° c.; tuttavia, potrebbe forse sostenersi che la percentuale indicata astringa il debitore nei soli limiti del 20% e che l’eventuale “delta” fra quanto prospettato in aumento rispetto a tale soglia (specie ove chiaramente prospettato come best case) e quanto in concreto realizzato non dia luogo a inadempimento.

Il che, sulla base di questa differente prospettazione, significherebbe in ultima analisi che la percentuale deve considerarsi vincolante, nel concordato liquidatorio, soltanto nei limiti del 20% di legge.

E’ questo, come ben si vede, un punto complesso e particolarmente “sensibile”, per cui sarà interessante registrare i primi orientamenti dottrinali e, soprattutto, giurisprudenziali al riguardo.

 

2.3. Proseguendo nell’analisi dell’ultimo comma dell’art. 160, la norma parla non già, a differenza del primo comma, di “soddisfazione dei crediti”, ma di “pagamento”.

Ora, l’espressione pagamento è adoperata dal codice civile anzitutto – com’è noto – a proposito delle obbligazioni pecuniarie (Sezione I del Capo VII del Titolo I) e, segnatamente, nelle disposizioni dedicate al “debito di somma di denaro”, vale a dire gli artt. 1277, 2° c., 1278, 1279 (nella rubrica) e 1280.

Stando quindi alla formulazione letterale del nuovo precetto, il concordato liquidatorio non potrebbe contemplare modalità satisfattive diverse dal pagamento di somme di denaro; mentre era stato proprio il passaggio dal termine “pagamento” usato dalla legge del 1942 alla parola “soddisfazione” introdotta dalla novella del 2005 a indurre a predicare, del tutto correttamente, “il venir meno dell’obbligo previsto dall’art. 1277 c.c.”[10].

Allargando lo sguardo ad altre previsioni (che non distinguono in base alla tipologia di concordato), ci si avvede tuttavia che la legge continua a parlare di soddisfazione dei crediti “attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo o altre operazioni straordinarie” (art. 160, 1° c., lett. a); e che anche la previsione di cui alla citata lettera e) del secondo comma dell’art. 161 – ciò che più conta, trattandosi appunto di norma nuova – ricorre all’espressione, volutamente generica, di “utilità”.

Delle due dunque l’una: o ci si arresta al dato testuale dell’ultimo comma dell’art. 160, e allora non vi è alcun residuo spazio, nel concordato liquidatorio, per modalità satisfattive diverse dal pagamento (dationes in solutum e quant’altro), con evidente disparità di trattamento (ma non per questo censurabile sul piano costituzionale, attenendo all’esercizio della discrezionalità legislativa) rispetto al concordato in continuità; oppure si valorizza il quadro generale (riferito al concordato tout court), sminuendo in tal modo la portata innovativa della norma anzidetta. Sebbene occorra riconoscere che il canone dell’interpretazione letterale rende la seconda soluzione non agevolmente predicabile.

 

2.4. Sempre con riferimento alla norma in questione, merita accennare al tema, gravido di implicazioni pratiche, del momento a partire dal quale si applica, come condizione di ammissibilità, lo sbarramento del 20%.

La volontà del legislatore in ordine alla decorrenza della novella nel suo complesso emerge chiaramente dalle “Disposizioni transitorie e finali”, che si riferiscono, ai fini in esame, ai “procedimenti di concordato preventivo introdotti successivamente all’entrata in vigore della legge di conversione”. E il ricorso ai concetti di “introduzione” e di “procedimento” consente di sgombrare ogni dubbio circa l’inapplicabilità della riforma (con l’eccezione espressamente prevista dal secondo comma dell’art. 23 del decreto legge) a tutte le domande di concordato, con o senza riserva, depositate prima di tale data.

Né pare sostenibile sottrarre al ragionamento fin qui condotto la previsione relativa alla soglia del 20% solo perché inserita in sede di emendamenti ad opera del Senato. Anzi, una conferma in senso contrario proviene per l’appunto dal testo approvato dal Senato stesso, che contiene un’unica deroga al principio anzidetto, là dove stabilisce che le (sole) disposizioni di cui all’art. 1 (inerenti alla finanza interinale ex art. 182-quinquies) “si applicano ai procedimenti di concordato preventivo introdotti anche anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto”. E ciò, fermandosi a quanto testé osservato, dovrebbe valere per l’intera nuova disciplina, inclusa l’abrogazione del silenzio-assenso.

Per altro verso, non sembra possibile annettere alla norma di cui trattasi carattere processuale, riferendosi essa a un istituto tipicamente sostanziale qual è quello del pagamento ai creditori[11]. Senza dire di quanto poco persuadano i tentativi di ampliare artificiosamente il novero delle disposizioni processuali ogniqualvolta (e per il semplice fatto che) ci si riferisca a istituti connotati, come nel caso del concordato, anche da profili procedimentali.

Ne deriva che l’unico criterio dotato di un adeguato livello di sicurezza e stabilità è quello dello spartiacque consistente nel momento di introduzione del procedimento concordatario (si ripete, con o senza deposito della proposta e del piano attestato). Ogni diversa soluzione si rivelerebbe, fatalmente, foriera tanto di pericolose disomogeneità applicative, quanto di incertezze per gli operatori economici, che hanno riposto legittimo affidamento, nel momento in cui hanno optato per la soluzione concordataria, su un quadro normativo affatto differente.

D’altronde, sono precisamente queste le incertezze che il legislatore dovrebbe cercare (e per vari aspetti, in quest’occasione riformatrice, ha tentato) di evitare e da cui un interprete consapevole delle “ricadute” delle proprie decisioni dovrebbe – si osserva sommessamente – rifuggire.

 

2.5. Detto questo con riguardo al concordato con cessione dei beni, merita ora interrogarsi circa il modo in cui la previsione dello sbarramento del 20% sia eventualmente destinata a interferire con la fattispecie del concordato con continuità aziendale.

Prima di affrontare questo aspetto, non è ozioso rimarcare – come già ricordato – che la seconda parte del ridetto ultimo comma dell’art. 160 esclude espressamente l’applicabilità di tale soglia “al concordato con continuità aziendale di cui all’articolo 186-bis”.

Ora, non è ragionevole pensare che il legislatore della riforma non fosse edotto dell’annoso dibattito sulla riconducibilità a quest’ultima previsione della c.d. continuità indiretta, sicché non sembra peregrino ipotizzare che, ove avesse voluto escluderla, ben avrebbe potuto parlare espressamente di “continuità aziendale diretta”. L’aver fatto invece riferimento al concordato “di cui all’articolo 186-bis”, che continua a menzionare, come possibile declinazione dell’istituto, la cessione dell’azienda in esercizio, sembra in qualche modo “portare ulteriore acqua” alla tesi che, valorizzando la continuità in senso oggettivo, riconduce il caso del trasferimento di azienda all’ambito applicativo della norma di cui trattasi, quand’anche la cessione sia preceduta da un contratto di affitto anteriore al concordato, contenente l’impegno dell’affittuario all’acquisto (ipotesi, quella in parola, non incompatibile con la parte di disciplina dell’art. 186-bis ad applicazione necessaria e non del tutto scevra da rischio d’impresa)[12].

Tesi, quest’ultima, da tempo propugnata da chi scrive (pur nella consapevolezza degli “onori e oneri” che ciò comporta, a cominciare dall’attestazione “rafforzata”) e che va progressivamente affermandosi in giurisprudenza[13], come testimonia, da ultimo, la pronuncia resa dal più grande tribunale italiano relativamente al concordato di una nota testata giornalistica, ove si afferma che “anche il concordato cd. con continuità indiretta è ascrivibile alla categoria del concordato con continuità aziendale, dovendosi avere riguardo alla continuazione della vita dell’azienda sia che avvenga in capo all’originario imprenditore sia che avvenga in capo a terzi affittuari o acquirenti. (…) Pertanto, l’affitto stipulato prima della presentazione della domanda di concordato, come quello da stipularsi in corso di procedura concordataria, non è, ove vi sia la previsione di successiva cessione dell’azienda in esercizio, di ostacolo all’applicabilità della disciplina tipica del concordato in continuità, essendo l’affitto un mero strumento giuridico ed economico finalizzato proprio ad evitare una perdita di funzionalità ed efficienza dell’intero complesso aziendale in vista di un suo successivo passaggio a terzi”[14].

Di là da queste riflessioni (se si vuole, almeno in parte, “congetturali”, ma forse non inutili a ribadire la riconducibilità della continuità indiretta nel perimetro applicativo dell’art. 186-bis) e tornando al tema dei profili di interferenza fra sbarramento del 20% e concordato in continuità, si può essere tentati di predicare una sorta di (pur limitato) “ribaltamento” di questo requisito di ammissibilità su tale tipologia di concordato; e ciò sulla scorta del disposto dell’art. 186-bis, 2° c., lett. b), ai sensi del quale la relazione del professionista “deve attestare che la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori”: di tal che l’attestatore non potrebbe pronunciarsi positivamente tutte le volte in cui l’opzione liquidatoria consenta il raggiungimento del 20% mentre quella fondata sulla continuità no.

Una conclusione siffatta, comportante una non trascurabile “ingessatura” del sistema, può tuttavia ritenersi, forse, non “obbligata”.

In primo luogo, la formulazione dell’art. 160, u.c., è inequivoca nel sancire l’inapplicabilità della soglia minima al concordato in continuità, per cui richiederne il raggiungimento ove essa possa risultare astrattamente attingibile nello scenario liquidatorio (pena la necessità di prediligere quest’ultimo) rischia di porsi contra tenorem legis.

In secondo luogo, la nuova disciplina – come ripetutamente osservato – si caratterizza per un favor per il concordato in continuità assai più accentuato rispetto a quello (sensibilmente diminuito) per il concordato liquidatorio, sicché la tesi che obbliga il debitore a presentare un concordato con cessio bonorum al 20% quando vorrebbe (e potrebbe) invece presentarne uno in continuità – poniamo – al 18% potrebbe considerarsi contra rationem legis.

Senza dire che, interpretando il requisito della funzionalità al miglior soddisfacimento dei creditori come rapportato alle alternative concretamente praticabili, dovrebbe prendersi in considerazione il solo scenario fallimentare, dal momento che la liquidazione concordataria – in quanto non voluta dal debitore – risulta perseguibile solo in astratto, avendo il debitore optato, appunto, per la continuazione dell’attività d’impresa.

Non può negarsi, ad ogni modo, come la questione appaia obiettivamente controvertibile (specie tenuto conto della primazia, nel concordato a differenza che nell’amministrazione straordinaria, della tutela dei creditori “a prescindere” da altri interessi) e comunque meritevole, data la sua rilevanza, di maggior approfondimento.

Il riferimento all’attestazione in ordine al miglior soddisfacimento dei creditori, del resto, rappresenta, notoriamente, un “problema nel problema”, anche per la poliedricità delle situazioni che possono in concreto verificarsi. Può darsi ad esempio il caso in cui il concordato in continuità preveda percentuali di soddisfacimento analoghe allo scenario liquidatorio, ma in tempi più lunghi. Forse in questo caso l’attestatore dovrebbe “attualizzare” i flussi, con quanto ne consegue, ma siamo nel campo di un significativo livello di incertezza giuridica. Non meno delicata la questione di una continuità aziendale che all’inizio – fatto non infrequente – “bruci cassa” (come si dice in gergo aziendalistico), ma che nel medio periodo generi reddito. Qui l’attestazione parrebbe rilasciabile solo a condizione che la generazione prospettica di flussi assorba la perdite iniziali e risulti, considerando l’intero arco temporale del piano, davvero più conveniente per i creditori rispetto alla liquidazione.

Ma si tratta di profili che rischiano di condurci fuori tema e che, comunque, non sono qui suscettibili del debito approfondimento.

 

2.6. Altro aspetto desinato a essere ulteriormente dibattuto alla luce delle nuove norme è quello del concordato in cui coesistano una componente di continuità aziendale e una liquidatoria.

In che misura trova applicazione l’obbligo di assicurare il pagamento di almeno il 20% dei chirografari nel caso di concordato c.d. misto?

La risposta secondo la quale la semplice presenza di una componente liquidatoria dovrebbe comportare l’osservanza della soglia minima non persuade. Anzi, il favor del legislatore (anche) di quest’ultima riforma per il concordato in continuità dovrebbe indurre a ritenere, semmai, l’esatto contrario, vale a dire che la presenza di elementi di continuità aziendale (purché non di irrisoria rilevanza rispetto al tutto) giustifichi di per sé l’applicazione dell’art. 186-bis e quindi l’esclusione dell’obbligo relativo al 20%.

Diversamente, non sembrano residuare alternative al ricorso al criterio c.d. della prevalenza (teorizzato in materia, fra i primi, da chi scrive[15]), con la conseguenza che la predetta soglia andrebbe rispettata ogniqualvolta le utilità ricavabili dalla liquidazione dei beni estranei al perimetro aziendale in continuità rappresentino la parte preponderante dell’attivo concordatario.

 

2.7. Come già ricordato, il novellato testo dell’art. 161, 2° c., lett. e), prescrive che la proposta concordataria indichi l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore.

Prescindendo dall’interrogativo sopra espresso circa l’idoneità (quanto meno dubbia) della previsione a “tombalizzare” il dibattito sulla vincolatività della percentuale indicata, la formulazione della norma conduce l’attenzione dell’interprete a focalizzarsi sul concetto di utilità, adoperato dal legislatore per lo più in ambito penale (“denaro o altre utilità”) e raramente utilizzato in campo civile (nel codice risulta impiegato limitatamente – a quanto consta – agli istituti del fondo patrimoniale, del fondo dominante nella servitù e della gestione di affari altrui: artt. 169, 1027 e 2031).

Il termine “utilità”, per vero, ha fatto il suo contestuale ingresso nella legge fallimentare anche in un altro punto, là dove, al primo comma dell’art. 172, si richiede al commissario di illustrare, nella propria relazione, “le utilità che, in caso di fallimento, possono essere apportate dalle azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie che potrebbero essere promosse nei confronti di terzi”.

La ratio della disposizione di cui all’anzidetto dell’art. 161, 2° c., lett. e), appare perspicua: scongiurare la presentazione di domande che lascino – come si legge nella Relazione illustrativa – “del tutto indeterminato e aleatorio il conseguimento di un’utilità specifica per i creditori”: donde la prescrizione che le utilità spettanti ai creditori siano appunto enucleate in modo specifico e risultino misurabili sul piano economico.

A risultati interpretativi analoghi, peraltro, era già pervenuta la giurisprudenza nel perseguire lo scopo – e nell’affermare giustamente la necessità – di una genuina e consapevole formazione del consenso da parte del ceto creditorio.

Sotto il profilo esegetico, può osservarsi come il legislatore abbia fatto volutamente ricorso a un’espressione generica e in quanto tale comprensiva di ogni tipo di utilità suscettibile di valutazione economica; concetto, questo, da intendersi in sostanza come sinonimo di “vantaggio economico” latamente inteso.

Vi rientrano quindi, per certo con riguardo al concordato in continuità, benefici assai diversi dal denaro e dall’attribuzione di beni in natura, potendosi andare dalla prosecuzione di rapporti commerciali con determinati fornitori alla salvezza dalla revocatoria di atti altrimenti destinati, con tutta probabilità, alla declaratoria di inefficacia: quindi vantaggi per i creditori sia in termini di maggiori introiti che di minori esborsi rispetto all’ipotesi fallimentare.

Per com’è appunto formulata, la previsione in esame sembra aprire, in prospettiva, alla possibilità di configurare anche nel nostro ordinamento le cc. dd. classi a zero (cui la Cassazione ha fin qui negato “diritto di cittadinanza”), sulla falsariga dell’istituto della zeroklass proprio del sistema tedesco; e nella medesima direzione potrebbero invero muovere i lavori della Commissione di riforma.

Deve infine osservarsi, relativamente all’espressione “ciascun creditore”, che essa va necessariamente interpretata, ove si voglia munirla di significato anche sotto il profilo operativo (si pensi ai concordati con centinaia, quando non migliaia, di creditori), come riferita, in realtà, a ciascuna categoria di creditori.

   

3. Modifiche e rinuncia alla domanda

La novella in commento tocca espressamente la questione della modifica della domanda di concordato al secondo comma dell’art. 172 (introdotto ex novo).

Dopo aver prescritto che, nell’eventualità in cui vengano presentate proposte concorrenti, il commissario giudiziale deve depositare in cancelleria e comunicare ai creditori, dieci giorni prima dell’adunanza, una relazione integrativa e che questa deve contenere, di regola, una comparazione particolareggiata delle diverse proposte, continua come segue: “Le proposte di concordato, ivi compresa quella presentata dal debitore, possono essere modificate fino a quindici giorni prima dell’adunanza dei creditori”.

Come si vede, la formulazione del precetto non lascia spazio a dubbi in ordine al fatto che l’ultimo momento utile per la modifica di tutte le proposte sia il quindicesimo giorno anteriore a quello dell’adunanza. E l’abrogazione del secondo comma dell’art. 175, che in precedenza individuava tale momento nell’inizio delle operazioni di voto, conferma inequivocabilmente – ove ve ne fosse bisogno – l’assunto.

Nulla stabilisce la legge a proposito della rinuncia alla domanda[16], per cui può porsi il dubbio se il predetto termine debba considerarsi operante anche in tale, pur diversa, ipotesi.

All’interrogativo deve con tutta probabilità rispondersi negativamente. Modifica e rinuncia sono invero istituti nettamente distinti, sul piano sia ontologico che teleologico. La modifica implica la conferma che si intende percorrere la strada intrapresa, ancorché con qualche variante (non necessariamente sostanziale) rispetto all’impostazione originaria. La rinuncia, al contrario, presuppone una scelta di natura abdicativa: il debitore non vuole proseguire l’iter concordatario.

Non è quindi possibile far dire alla norma ciò che essa non ha previsto, né, verosimilmente, voluto prevedere, pena un’eccessiva forzatura nell’approccio ermeneutico, oltre tutto non supportabile dal ricorso all’eadem ratio stante, appunto, l’innegabile alterità concettuale fra modifica e rinuncia.

Né pare fondato sostenere che la presentazione di proposte da parte di terzi sterilizzi, dopo lo spirare del termine anzidetto, le facoltà abdicative del debitore. Ed invero, egli non può restare “prigioniero” della procedura concordataria per il sol fatto dell’intervenuta attivazione ad opera di un soggetto terzo. E’ vero anzi il contrario: in un sistema in cui la proposta concorrente non può precedere, ma deve necessariamente seguire, l’iniziativa del debitore, la proposta del terzo sta e cade con la domanda presentata dall’imprenditore[17].

Se così è, il debitore può dunque rinunciare alla propria domanda non solo fino all’inizio (o meglio alla conclusione) delle operazioni di voto, ma fors’anche, non essendo il concordato assimilabile sic et simpliciter a un contratto, fino al momento in cui si chiuda il giudizio di omologazione, come si evince dal recente puntuale arresto della Cassazione in materia, secondo il quale “la rinuncia alla domanda di concordato preventivo, la quale si traduce sostanzialmente in un abbandono della relativa proposta, atteggiandosi come revoca della stessa, non è ammissibile una volta che il concordato sia stato omologato”[18].

L’unico limite alla facoltà in parola è quello del ricorso abusivo e strumentale alla rinuncia da parte del debitore, che si verifica quando essa sia diretta al solo scopo di modificare tardivamente la domanda (rispetto al predetto termine di cui al secondo comma dell’art. 172) attraverso il suo ritiro e la successiva ripresentazione. In questi limitati casi l’escamotage è scoperto e non può (né deve) riuscire.

Ma quest’ultimo aspetto, per vero non diversamente dagli altri fin qui affrontati, merita una riflessione più attenta e ponderata, che ci si riserva di sviluppare in altra sede.



* Ordinario di diritto commerciale nell’Università del Piemonte Orientale e docente di diritto della crisi d’impresa nella LUISS Guido Carli; componente della Commissione di riforma del diritto fallimentare istituita presso il Ministero della giustizia nel gennaio 2015.

[1] I primi commenti apparsi sono, a quanto consta, i seguenti: Bozza, Brevi considerazioni su alcune norme dell’ultima riforma, in Fallimenti e Società.it; Fabiani, L’ipertrofica legislazione concorsuale fra nostalgie e incerte contaminazioni ideologiche, in ilcaso.it; Guidotti, Misure urgenti in materia fallimentare (d.l. 27 giugno 2015, n. 83): le modifiche alla disciplina del fallimento e le disposizioni dettate in tema di proposte concorrenti, ivi; Lamanna, La miniriforma (anche) del diritto concorsuale secondo il decreto “contendibilità e soluzioni finanziarie” n. 83/2015: un primo commento, in ilfallimentarista.it; Marinoni-Nisivoccia-Santoriello, Decreto giustizia: le novità in materia fallimentare, Milano, 2015; Varotti, Appunti veloci sulla riforma 2015 della legge fallimentare, in ilcaso.it. La loro lettura ha offerto a chi scrive alcuni utili spunti ai fini del presente contributo.

Le opinioni sono espresse in questa sede non, ovviamente, in qualità di membro della Commissione di riforma, ma a mero titolo personale.

Ringrazio per i preziosi confronti (tanto più essendo avvenuti a metà agosto!) Luciano Panzani, Vittorio Zanichelli, Roberto Fontana e Marco Arato, nonché, per i cortesi e assai utili riscontri epistolari, Caterina Santinello, Riccardo Bonivento, Sante Casonato, Luigi Bottai, Antonio Pezzano e Massimiliano Ratti.

[2] Si tratta del noto caso deciso da Trib. Roma, 16 aprile 2008, in Dir. fall., 2008, II, p. 150, risolto attingendo all’istituto della (mancanza di) causa del contratto.

[3] In proposito, si era ritenuto di prospettare, de jure condendo, l’opportunità di “una più netta differenziazione, anche sotto il profilo del favor, fra concordato liquidatorio e concordato con continuità aziendale” (Ambrosini, Il concordato preventivo, in AA.VV., Le altre procedure concorsuali, in Trattato di diritto fallimentare, diretto da Vassalli-Luiso-Gabrielli, IV, Torino, 2014, p. 18).

[4] Per un’efficace sintesi del dibattito e per i riferimenti essenziali v. Fabiani, Concordato preventivo, in Commentario Scialoja-Branca al codice civile, Bologna, 2014, pp. 182 ss.

[5] Cass., S.U., 23 gennaio 2013, n. 1521, pubblicata da tutte le riviste di diritto commerciale, fra cui Dir. fall., 2013, II, p. 1, con nota di Didone, Le Sezioni Unite e la fattibilità del concordato preventivo, e Fallimento, 2013, p. 109, con commento di Fabiani, La questione “fattibilità” del concordato e la lettura delle Sezioni Unite.

[6] Fra i contributi più stimolanti in argomento, nel novero di quelli apparsi all’indomani della riforma del 2005, si veda La Malfa, La crisi dell’impresa, il piano proposto dall’imprenditore e i poteri del tribunale nel nuovo concordato preventivo, in ilcaso.it., cui adde, fra i molti intervenuti successivamente sulla questione, Panzani, Il decreto correttivo della riforma delle procedure concorsuali (Prima Parte), in Quotidiano Giuridico Ipsoa, 2007, pp. 1 ss.; Zanichelli, I concordati giudiziali, Torino, 2010, pp. 182 ss.; Jorio, Fattibilità del piano di concordato, autonomia delle parti e poteri del giudice, in Giur. comm., 2012, II, pp. 1107 ss., ove un’ampia ricostruzione delle problematiche e numerosi riferimenti.

[7] Sul tema v., tra gli altri, Nardecchia, La risoluzione del concordato preventivo, in Fallimento, 2012, pp. 260 ss.; Casa, Risoluzione del concordato preventivo e fallimento, ivi, 2013, pp. 53 ss.; Fauceglia, Diritto civile e concordato preventivo: una convivenza difficile, ivi, 2015, pp. 356 ss.

[8] Cass. 19 luglio 1959, n. 2235, in Mass. Giust. civ., 1959.

[9] Cass., 7 giugno 1993, n. 6367, in Giur. it., 1994, I, 1, c. 1209.

[10] Zanichelli, I concordati giudiziali, cit., p. 150.

[11] Obiettivamente più discutibile, da questo punto di vista, appare la natura della norma che ha ripristinato il silenzio-diniego (ma la questione va meglio indagata).

[12] Per un approfondimento sul punto sia consentito rinviare ad Ambrosini, Appunti in tema di concordato con continuità aziendale, in ilcaso.it, p. 9, ove il rilievo secondo il quale lo spartiacque cui si deve ricorrere “è di tipo oggettivo, non soggettivo: ciò che conta è che l’azienda sia in esercizio (non importa se ad opera dell’imprenditore stesso o di un terzo) tanto al momento dell’ammissione al concordato, quanto all’atto del suo successivo trasferimento” (assunto ripreso, fra le altre decisioni sul punto, da Trib. Cuneo, 29 ottobre 2013 – invero pressoché verbatim –, nonché da ultimo da Trib. Roma, 24 marzo 2015, in ilcaso.it.). Nello stesso senso, fra gli altri, Arato, Il concordato preventivo con riserva, Torino, 2013, p. 149; Tombari, Alcune riflessioni sulla fattispecie del concordato con continuità aziendale, in ilfallimentarista.it; Patti, Il pagamento di debiti anteriori ex art. 182-quinquies, 4° comma, legge fall. in favore dell’affittuario in continuità aziendale, in Fallimento, 2014, p. 196. Contra, da ultimo, Fabiani, Concordato preventivo, cit., p. 194, ove il rilievo (che non appare peraltro decisivo) secondo cui in tal caso “il debitore, pur se non perde la qualifica di imprenditore si trasforma in “imprenditore quiescente” perché solo al momento della cessazione del contratto di affitto riprenderà, a pieno, il suo ruolo”.

[13] Trib. Bolzano, 10 marzo 2015, in ilcaso.it; Trib. Reggio Emilia, 21 ottobre 2014, ivi; Trib. Avezzano, 22 ottobre 2014, ivi; Trib. Vercelli, 13 agosto 2014, ivi; Trib. Cuneo, 29 ottobre 2013, ivi; Trib. Mantova, 19 settembre 2013, ivi; Trib. Monza, 11 giugno 2013, ivi; Trib. Firenze, 19 marzo, 2013, in ilfallimentarista.it, e molti altri, in parte inediti.

[14] Trib. Roma, 24 marzo 2015, cit. La decisione contiene l’ulteriore assunto in base al quale “il contenuto dell’attestazione dovrà incentrarsi sull’idoneità dell’affittuario e promissario acquirente a far fronte ai propri impegni (…), ma anche sulla realizzazione di un adeguato piano industriale.” Quest’ultima affermazione, che chi scrive era stato fra i primi a prospettare in dottrina, appare oggi, re melius perpensa, meritevole di rimeditazione.

[15] Appunti in tema di concordato preventivo con continuità aziendale, cit., p. 5. Nello stesso senso in giurisprudenza, fra le altre decisioni conformi, v. da ultimo Trib. Roma, 24 marzo 2015, cit., ove si legge che, “in ipotesi di concordato misto, in parte liquidatorio ed in parte con continuità aziendale, per individuare le norme da applicare nel caso concreto occorre verificare se le operazioni di dismissione previste, ulteriori rispetto all’eventuale cessione dell’azienda in esercizio, siano o meno prevalenti, in termini quantitativi e qualitativi, rispetto al valore dell’azienda che permane in esercizio”.

[16] Fra i saggi più recenti dedicati in maniera specifica all’argomento cfr. Ambrosini-Aiello, La modifica, la rinuncia e la ripresentazione della domanda di concordato preventivo, in ilcaso.it, e Bellé, La modifica e il ritiro della domanda di concordato preventivo, in Fallimento, 2015, pp. 645 ss.

[17] De jure condendo, in dottrina si era prospettata l’opportunità, anche nell’ottica di favorire una più tempestiva emersione della crisi, di consentire a terzi di proporre per primi e in via autonoma la domanda di concordato, inizialmente con riserva, per dare al debitore la possibilità di attivarsi e presentare egli stesso il piano concordatario, “assorbendo” così l’iniziativa dei terzi: cfr., in luogo di altri, Jorio, La riforma fallimentare: pregi e difetti delle nuove regole, in Giur. comm., 2013, I, p. 712.

[18] Cass. 28 aprile 2015, n. 8575, così massimata in ilcaso.it.


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